Carlo Troya
Nello stesso anno in cui veniva alla luce Federico di Svevia, un misterioso costruttore di cattedrali affiliato alla corporazione dei Magistri Comacini raffigurava sul Battistero di Parma il profilo di un cane levriere. E’ infatti con l’immagine di un veltro che termina lo zooforo antelamico, cioè la sequela di settantanove figure che circonda l’edificio e che ci presenta, tra i vari “animali fantastici”, anche quei tre in cui si imbatterà l’Alighieri: la lonza, il leone, la lupa. Dante, come è noto, si smarrisce nella “selva oscura” oltre un secolo dopo; ma sia gli animali che ostacolano il suo cammino sia il Veltro preannunciatogli da Virgilio sono già presenti sul Battistero parmigiano.
Del rapporto che intercorre tra l’opera dell’Antelami e la dottrina del Santo Impero ci siamo già occupati altrove (1). Qui vorremmo invece ricordare come negli ambienti ghibellini del territorio compreso tra Parma e Reggio l’antroponimo Veltro sia attestato fin dal 1246: lo portò (e lo trasmise a uno dei suoi figli) il libero signore del Castello e della terra di Vallisnera, condomino nelle Valli dei Cavalieri, quel Veltro da cui discendono i rami dei Vallisneri fino ai giorni nostri (2). D’altronde, la figura di un veltro compare nello stemma della famiglia, che viene descritto così: “D’oro alla fascia di rosso caricata dal veltro corrente d’argento, collarinato d’oro, accompagnata in capo da una stella rossa” (3).
Non è dunque il caso di insistere ulteriormente sul rapporto del Veltro con l’idea dell’Impero e col ghibellinismo. Se mai, ci si può interrogare circa le basi su cui tale rapporto si fonda.
Aroux, che identifica il Veltro con Can Grande della Scala, spiega che il nome Can “si prestava a una duplice allusione, nel senso di cane da caccia, veltro, nemico della lupa romana, e nel senso di Khan dei Tartari” (4). Si trattava insomma di “quel Khan che, nato all’estremo opposto dell’Eurasia, era storicamente riuscito a riunificarla quasi tutta in un unico gigantesco Impero, facendosi contemporaneamente riconoscere quale somma Autorità spirituale dai vertici degli essoterismi taoista, buddista, islamico e financo cristiano nestoriano” (5). Scrive altrove Aroux: “Questi Tartari, sempre secondo Yvon (di Narbona, n.d.r.), consideravano i loro monarchi come degli dèi, principes suorum tribuum deos vocantes (…) Secondo lui, questi stessi Tartari, ai quali all’epoca ci si interessava tanto, “avevano scelto come capo uno dei loro, che fu innalzato su uno scudo ricoperto con un pezzo di panno, su un povero FELTRO fu levato, e chiamato Kan (…) fu chiamato Cane, che in lor linguaggio significa imperadore. (…) Non bisogna dunque stupirsi troppo dei nomi bizzarri di Mastino e Cane, dati a quei Della Scala che dominavano sulla Lombardia e che i ghibellini riconoscevano come loro capi. Quello di Veltro non è che un sinonimo (…)” (6).
Riprendendo l’interpretazione di Aroux, Guénon aggiunge che, “in diverse lingue, la radice can o kan significa ‘potenza’, il che si collega ancora allo stesso ordine di idee” (7); inoltre Guénon fa notare (8) che al titolo turco-tataro di Khan equivale quello latino di Dux, applicato al Veltro dallo stesso Dante:
…un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.
(Purg. XXXIII, 43-45).
Trasformato in Cane e quindi in Veltro, il titolo di khan venne dunque trasferito tanto sulla figura archetipica del monarca universale quanto su alcuni personaggi storici di parte ghibellina.
Oltre a Can Grande della Scala, che a questo proposito è forse il più citato, altre personalità sono state identificate con il Veltro dantesco, per via della loro maggiore o minore rispondenza alle caratteristiche essenziali dell’archetipo. Ci limitiamo a menzionarne tre: Enrico VII di Lussemburgo, Ludovico il Bavaro e Uguccione della Faggiola.
Enrico VII, “l’alto Arrigo”, nel Paradiso dantesco viene rappresentato in termini di perfetta coincidenza con l’archetipo imperiale, come è stato magistralmente messo in evidenza da Vasile Lovinescu:
“In mezzo al ‘convento’ della milizia santa, quindi nella terza cinta, si trova il trono dell’alto Arrigo, sovrapposto al Motore Immobile, in stato di identità con esso. Enrico VII, in un tale stato di identità, rappresenta direttamente nell’universo il Motore Immobile e quindi è il centro immanente del mondo; e per via di una traslazione discendente lungo l’Asse polare, è anche il centro di un gruppo di monaci cavalieri. Dunque, può essere soltanto l’esponente del potere regale? Quanto fosse effettivo Enrico VII, non ha importanza. L’importante è che la funzione di Imperatore romano per certi “conventi” del Medio Evo rappresentava ambedue i poteri grazie alla sua continuità con la funzione del Cesare romano, che era al contempo Pontefice Massimo e Imperator” (9).
Dante. 'La Divina Commedia' illustrata da Flaxman Quanto a Ludovico il Bavaro, “che quando fu eletto parve uomo valoroso e franco a Giovanni Villani, dovette maggiormente parerlo a chi stava esule dalla patria aspettando con bramosia e impazienza, novità e avvenimenti che dessero vittoria alla propria parte abbassata” (10). Esule dalla patria, Dante morì sette anni dopo che Ludovico, nel 1314, era diventato re di Germania, suscitando quelle aspettative di restaurazione imperiale che la “parte abbassata” dei ghibellini continuò a nutrire anche in seguito. Infatti, come riferisce il cronista guelfo, “negli anni di Cristo 1326, del mese di Gennaio per cagione della venuta del duca di Calavra in Firenze, i Ghibellini e’ tiranni di Toscana e di Lombardia e di parte d’imperio mandarono loro ambasciadori in Alamagna a sommuovere Lodovico duca di Baviera eletto re dei Romani, acciocché potessono resistere e contrastare alle forze del detto duca e della gente della Chiesa, ch’era in Lombardia” (11).
Il 31 maggio 1327 Ludovico cinse la Corona Ferrea, sicché “incontanente, e in quello medesimo tempo, si commosse quasi tutta Italia a novitade; e’ Romani si levarono a romore e feciono popolo (…) e mandarono loro ambasciadori a Vignone in Proenza a Papa Giovanni, pregandolo che venisse colla corte a Roma, come dee stare per ragione; e se ciò non facesse, riceverebbono a signore il loro re de’ Romani detto Lodovico di Baviera; e simile mandarono loro ambasciadori a sommuovere il detto Lodovico chiamato Bavaro” (12).
L’anno successivo Ludovico il Bavaro venne incoronato imperatore; ma non dal papa, bensì dal popolo romano, perché aveva abbracciato la dottrina di Marsilio da Padova.
Uguccione della Faggiola (1250 circa-1319) fu un celebre capo ghibellino della Toscana, al quale Dante avrebbe inviato l’Inferno nel 1307. Dopo aver ricoperto per cinque volte la carica di podestà, dal 1309 al 1310 fu signore di Arezzo, podestà e capitano di guerra di altre città, vicario di Enrico VII a Genova e finalmente, nel 1313, signore di Pisa; a Pisa e poi anche a Lucca esercitò un potere assoluto. Nel 1313 sconfisse i guelfi a Montecatini, ma nel 1316 una ribellione lo costrinse ad esulare, sicché trascorse gli ultimi anni della sua vita al servizio di Can Grande della Scala.
L’identificazione del Veltro dantesco con Uguccione della Faggiola venne sostenuta da Carlo Troya in un saggio intitolato Del Veltro allegorico di Dante, che fu pubblicato nel 1825 a Firenze “presso Giuseppe Molini, all’insegna di Dante”. Totalmente ignorato dalle storie della letteratura attualmente in uso nei licei, Carlo Troya svolse nondimeno un ruolo di un certo rilievo nella cultura italiana del secolo scorso, per cui riteniamo opportuno tracciare un sommario profilo della sua vita e della sua opera.
Luigi Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore Nato a Napoli il 7 giugno 1784 da famiglia devotissima ai Borboni, nel ‘98 il giovane Carlo fu portato in Sicilia dal padre, medico di corte che seguì re Ferdinando nella fuga. Rientrato a Napoli nel 1802, cominciò a maturare orientamenti liberali, sicché nel ‘20 diventò redattore della “Minerva napolitana” e nel ‘21 fu nominato intendente in Basilicata. Condannato all’esilio dalla reazione del ‘24, si rifugiò in Toscana, dove visitò luoghi storici, archivi e biblioteche alla ricerca di memorie dantesche. Nacque così lo studio Del Veltro allegorico di Dante, condotto secondo un procedimento metodologico di tipo muratoriano che viene riassunto dallo stesso Troya nei termini seguenti: “Delle tante specie che vi sono di storie la mia vocazione, la tenuità del mio ingegno e la mia prima istituzione mi hanno fatto scegliere e amare la specie di storia che chiamerei empirica, quella cioè di narrare i fatti quali risultano dai documenti che io credo veri” (13).
La pubblicazione del Veltro allegorico di Dante scatenò una serie di indignate reazioni, che valsero all’autore i titoli non ingiustificati di “papista” e di “guelfo”. Infatti la tesi di Troya, come la troviamo riassunta in una lettera al padre del 24 dicembre 1824, è che Dante “inasprito dall’ingiusto esilio divenne così furioso ghibellino come prima era stato ardentissimo guelfo: ma la storia di quel ghibellino serve a far conoscere quali erano le massime, quali i ragionamenti, quali le speranze di quella fazione assai meglio che tutte le croniche di quel secolo”.
In tale interpretazione agivano indubbiamente quelli che oggi chiameremmo “pregiudizi ideologici”, ovvero, se si preferisce, “suggestioni di carattere patriottico, nobilissime quanto si vuole ma fuorvianti, che indebitamente trasferiscono (come in tanta parte della critica dantesca del primo Ottocento) le idealità del tempo nella storia del passato” (14). Tant’è vero che Troya non perdonò a Dante di aver sollecitato l’intervento dello “straniero”: “Per me, - scriveva a G. Pepe il 4 agosto 1827 - dicano di me quel che vogliano; io griderò sempre anatema a chiunque chiamò lo straniero in Italia o il patì: sia frate egli, papa, chierco, barone o qualunque altro. Ma più di qualunque papa e chierco o barone mi sembra colpevole un fiorentino, che sortì una patria e che abusò dell’ingegno in favore dello straniero”.
Il 12 marzo 1826, in un periodo in cui Troya stava viaggiando in varie parti d’Italia in compagnia di Saverio Baldacchini e Giuseppe Poerio, gli venne revocato il bando d’esilio; tuttavia non tornò subito a Napoli, ma preferì proseguire il suo lungo viaggio di studio e proseguire le sue ricerche nelle biblioteche.
Fu così che nel 1832 poté dare alle stampe un’altra opera di esegesi dantesca, arricchita di numerosi documenti, Del Veltro allegorico dei ghibellini, dove il Veltro perdeva quei contorni così individualizzati che aveva ricevuti nel saggio precedente: “Se Dante non seppe o non volle dire qual fosse il suo ‘Veltro’, tal sia di lui: a me basta l’aver mostrato che prima Uguccione della Faggiola e poi Castruccio Castracani furono dopo l’esilio di Dante i ‘Veltri dei ghibellini’, e massimamente di Fazio degli Uberti e degli altri Bianchi usciti di Firenze” (ivi, p. 147).
Dall’età di Dante, gli interessi storici di Troya si spostarono più indietro, a Carlo Magno e all’Europa barbarica. Della monumentale Storia d’Italia nel Medioevo, che sarebbe dovuta arrivare fino al Trecento, ma si interruppe al periodo longobardo, uscì a Napoli nel 1839-43 il primo volume, Apparato alla storia d’Italia, che studia i Popoli barbari avanti la loro venuta in Italia e contiene altresì un Discorso delle condizioni dei Romani vinti dai Longobardi e della vera lezione di alcune parole di Paolo Diacono. Nel 1844, anno in cui Troya rientrò a Napoli e vi fondò la Società storica, andò in stampa il secondo volume, che riguarda Eruli e Goti e reca tre appendici sui Fasti getici o gotici, daco-getici-normanni e visigotici.
Durante l’effimero governo costituzionale iniziato il 16 febbraio 1848, Troya tenne sul giornale liberale “Il Tempo” una rubrica Intorno alla storia e alle questioni politiche della Sicilia; dal 3 aprile al 15 maggio ricoprì la carica di presidente del consiglio dei ministri. La reazione non gli procurò nessun disturbo. “Troya? - motteggiò Ferdinando II - Lasciatelo stare nel Medioevo!” E nel Medioevo lo studioso rimase tranquillo fino alla morte, avvenuta il 28 luglio 1858.
Nel 1851 la sua Storia d’Italia era giunta al terzo volume, intitolato Greci e Longobardi. Il quarto, uscito postumo nel 1852-55, riporta il Codice diplomatico longobardo, arricchito di Note storiche, osservazioni e dissertazioni, ordinate principalmente a chiarire la condizione dei Romani vinti dai Longobardi e la qualità della conquista.
La concezione neoguelfa della Storia d’Italia si manifesta essenzialmente nel giudizio sulla “necessità” del dominio temporale dei papi, ai quali si deve la nuova civiltà “romano-cristiana”. A tale presa di posizione si ricollega anche la caratteristica antitesi tra Goti e Longobardi: i primi, adorni delle più belle virtù, si sarebbero certamente fusi con la popolazione latina, se non si fossero ostinati nell’arianesimo, mentre i “fedissimi” Longobardi rimasero sempre una casta guerriera che perseguì l’asservimento dei Latini e produsse una profonda divisione sociale e nazionale.
Di Carlo Troya ci restano infine, oltre a un copiosissimo carteggio in gran parte inedito, uno scritto Delle collezioni istoriche più necessarie a chi scrive storia d’Italia, pubblicato nel 1832 sul “Progresso delle scienze, lettere ed arti”, nonché due volumi di Annotazioni a margine degli Annali del Muratori (Napoli 1869-71).
E pensare che c'era chi paventava l'ipotesi che il Veltro fosse Veltroni...